
Il terzo giorno
Fa freddo, e questo ormai ce lo siamo detti in tutte le forme. C’è la neve, i disagi, le case che crollano, gli alberi che s’abbattono (da soli, poverini), i treni non vanno, la gente cerca catene come nemmeno i fantasmi ad Halloween, il ghiaccio si forma in luoghi dove le persone erano abituate a vederlo solo nel frigorifero, e via così. E il freddo fa pure paura, che magari noi che stiamo nelle case riscaldate e comode ce lo diciamo solo sottovoce e poi tutti a fare i bulli sui social network e lamentarsi dell’allarmismo o della sovraesposizione mediatica, però la paura c’è. E più ci si sposta verso zone meno dotate di infrastrutture, che sia la costa dove il mare gela sugli scogli battuti dalla bora a 140km/h o nei paesi dove l’acqua congela nelle tubature e costringe la gente a bere neve, la paura si avverte più intensa più selvaggia. Ecco, primitiva, è la paura che cercavo. Quando viene a mancare, un pezzo congelato alla volta, quel che ci distingue dai nostri antenati, scopriamo di aver ereditato da loro l’animale paura delle condizioni estreme, dalle quali possiamo difenderci solo fino a un certo punto.
Concetto che stimola in ognuno qualcosa di diverso, in uno che conta storie magari un paesaggio apocalittico new ice age, figure incappucciate che lottano contro venti polari, creature innaturali risvegliate dalle condizioni ideali per tornare a camminare su quella terra che un tempo dominavano. Nel mio caso, complice il concorso al massacro narrativo del 2011, la Royal Rumble, l’idea del freddo e di cosa ci si può nascondere dentro portò alla scrittura di questo raccontino, in prima persona tra l’altro, forma che uso poco spesso. Citazioni e doverosi riferimenti alle mie passioni letterarie sono scontate dalla prima riga e nemmeno andrò a citarle.
L’ebook non è più disponibile gratuitamente, lo trovate nella raccolta Il silenzio dell’acqua.
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