I personaggi dei Miti di Lovecraft nella Providence di Alan Moore

Cover di Jacen Burrows per Providence #3

Copertina di Jacen Burrows per l’edizione originale di Providence #3

Nuovo aggiornamento del materiale relativo all’opera di Alan Moore, Providence. Lavorando sulla traduzione dei facts capita spesso di incontrare le versioni di Alan Moore dei personaggi e dei luoghi del mito lovecraftiano. Sono numerosi e interagiscono tra loro all’interno e all’esterno delle storie originali, con curiosi e azzeccati “inside joke” che solo una profonda conoscenza del materiale originale può permettere di comprendere a pieno.

Per tener traccia di tutti questi riferimenti ho deciso di costruire capitolo dopo capitolo una tabella riassuntiva, che permetta di recuperare le informazioni sui personaggi e che funga da collegamento alla loro fonte letteraria. I racconti di H.P. Lovecraft sono linkati alle loro versioni originali, disponibili (il materiale è ormai fuori copyright) sul sito The H.P. Lovecraft Archive, per altro una miniera di materiale sul Solitario di Providence.

Continua…

True Detective e il corno di Jericho Hill

“If you ask me, light is winning”
Rust Cohle

C’è tutto nel titolo. Almeno se avete letto la Torre Nera, visto l’ottava e ultima puntata di True Detective e quindi non c’è possibilità di alcuno spoiler. Altrimenti questo non è posto per voi, siete avvisati.

Il cerchio, si diceva qualche puntata fa, argomentazione centrale nei vaneggiamenti di Rust Cohle, incentrati (ahah) sull’idea ciclica della vita, su un’eterna ripetizione di gesti insensati, in questa parziale percezione dell’esistenza che noi “sacchi di carne” chiamiamo realtà. Ogni cosa è già stata fatta, ogni situazione affrontata. Ragionamento che regala a Rust quel suo modo di agire (quasi) sempre compassato, quell’apparente vuoto dell’anima.

Eppure.
Ma al corno arriviamo poi.

Prima passiamo per Carcosa.

Carcosa

Carcosa

Che qualcuno è rimasto deluso, dalla assenza totale di un piano sovrannaturale nella faccenda, qualcuno si è lamentato dei troppi dialoghi, qualcuno delle figure femminili inesistenti. Ma qualcuno si lamenta sempre, e una serie che riesce ad accontentare molti e scontentarne altrettanti qualcosa di buono deve aver fatto. Dal mio punto di vista, ristrettissimo data la scarsa frequentazione del genere poliziesco e colpevole di non aver mai letto Il re in giallo (che ormai, figuriamoci, TUTTI conoscono di persona proprio, ci escono il sabato sera, con Hastur), il viaggio lento nel vuoto delle vite dei due true detective, colmate dall’unica speranza di giustiziare il killer, è stato appassionante e soddisfacente.

Anzi, la mancanza totale del sovrannaturale ha lasciato spazio al solo confronto tra le due personalità, sufficiente a riempire le puntate di questo “poliziesco”. Anche con le sue donne, che per quanto abbiano avuto poco minutaggio lo hanno usato bene, dimostrandosi sufficientemente spietate da mutare il corso degli eventi. Soprattutto per Marty, ovviamente, vittima di se stesso e della propria cronica fiducia nell’essere normale, cosa che gli viene a noia troppo presto per non farlo ricadere nei soliti errori (d’altro canto con Lili Simmons era impossibile non ricadesse, ammettiamolo).

Ed è banale scontato e inutile dire “senza il personaggio di Cohle non c’era nulla”. Parafrasandolo ce lo dice lui stesso, senza non c’era la serie (meglio infatti la battuta in originale, No buddy without me there is no you, che sottintende molto più di una dipendenza, quasi che Marty – e forse non solo lui – fosse nient’altro che un personaggio creato da Rust, dalla sua presenza in questa realtà, un attore nella messa in scena organizzata dal Re in giallo).

Nessun piano sovrannaturale, il mito è parte della realtà che ci circonda, bisogna solo saperlo (volerlo) vedere. Incarnato il mito, Carcosa diventa un luogo della mente e del corpo, riflettendo le intricate e pericolose devianze del serial killer nelle quali si perdono, fin quasi a rischiare la vita, entrambi i detective. Che hanno percorso il cerchio, e si ritrovano alla fine dov’erano all’inizio. Nei boschi davanti a un vuoto ciclico, solo che questa volta invece di guardarlo dall’esterno lo vivono da dentro.

Ed è nel finale che si comprende il simbolo, si può almeno ipotizzare, sperare anche, di dare una interpretazione (giusta, sbagliata, non ha senso, l’importante è che ci sia stato abbastanza mestiere nello spettacolo da generare il bisogno di ipotizzare, di sperare, di crearsi una propria interpretazione). Perché tornati al punto di partenza, pronti a cominciare un nuovo ciclo, qualcosa è cambiato, persino Rust riesce a essere “ottimista”. Nonostante la morte sfiorata, nonostante l’aver sfiorato con mano l’abisso di tenebra dove sua figlia lo attende, nonostante l’abisso di tenebra che soffoca il mondo, la luce sta vincendo, secondo lui.

Spostare di poco un punto in un cerchio permette di non tornare esattamente all’inizio, ma traslare e continuare.
Ed è così che arriviamo al corno di Jericho Hill.

È stato il mio primo pensiero, una volta spenta l’ottava puntata; una scheggia, un ricordo impazzito di un libro letto tanto tempo fa. Roland che conquista la Torre Nera solo per perdere la memoria e ricominciare tutto da capo. Però con quella piccola differenza, con il corno in mano pronto per essere usato. E Roland pronto a ricominciare tutto, tutto uguale eppure tutto potenzialmente diverso.
Spostando di poco l’asse degli eventi, sfiorando la ciclicità eterna che è l’inferno senza via di fuga.
E che cos’è un cerchio che non si ricongiunge a sé stesso, se non una spirale?

True Detective

La visione della realtà?

True Detective e le paludi della natura umana

È vicino a casa mia.
Nella palude.

Sta tutto lì, serve ben poco altro. Quella frase, quel frammento di dialogo, che precede un lungo e bellissimo piano sequenza di sei minuti, nella quarta puntata di True Detective. È stato quello a spingermi a scriverne, dopo esserci arrivato grazie all’entusiasmo degli articoli di Germano e, impossibile negarlo, alla presenza di citazioni tratte da Il Re in Giallo. Pensando all’inizio che si trattasse dell’ennesimo poliziesco non ci avevo fatto troppo caso. Invece bastano pochi minuti, qualche dialogo e attenzione alle location scelte, per capire che ci si trova di fronte a uno spettacolo diverso. Niente lucida tecnologia, niente classica coppia di sbirri, nessun filtro high contrast alla moda.
Il mondo nel quale si muovono Marty e Rust (Woody Harrelson e Matthew McConaughey) è stato candeggiato parecchie volte, senza che questo riuscisse a togliere lo sporco incrostato nella trama, in ogni sua fibra. E ci sono pochi luoghi adatti quanto la Louisiana, lì dove si abita “nella palude”, dove la terra è intrisa di miti oscuri, rivelati puntata dopo puntata con quasi fastidiosa parsimonia.

Altro colpo magistrale il suddividere la narrazione su due piani temporali, in un continuo di rimandi e citazioni che legano l’indagine sul killer, avvenuta diciassette anni prima, e l’interrogatorio al quale i due detective sono sottoposti da loro colleghi. In esame, sembrerebbe, c’è il ritorno in azione del killer e il bisogno di ripercorrere gli eventi della prima indagine. L’analisi che i protagonisti fanno del proprio operato è il modo perfetto per disseminare indizi su quanto è successo, spesso interrompendo la rivelazione a poche parole dal “finale”, e permette di navigare a fondo nel carattere dei personaggi. Come non bastassero i dialoghi, eccellenti in scrittura e ritmo, che vedono contrapporsi le teorie nichiliste di Rust al razionale per non dire rozzo approccio alla vita di Martin.

You, yourself, this whole big drama, it was never anything but a jerry-rig of presumption and dumb will and you could just let go, finally know that you didn’t have to hold on so tight. To realize that all your life, you know, all you love, all you hate, all your memory, all your pain—it was all the same thing. It was all the same dream, a dream you had inside a locked room, a dream about being a person. And like a lot of dreams . . . there’s a monster at the end of it.
Rust Cohle

Rust

Rust, come lo vede Martin

Chiunque non sia proprio a digiuno di letture lovecraftiane avrà colto nel pensiero di Rust, col suo continuo alternarsi tra realtà e visioni (dovute a un massiccio uso di droghe nel suo passato da infiltrato) le basi di quella teoria del terrore cosmico, dovuto alla consapevolezza che l’uomo è niente più che un insignificante burattino di carne in un cosmo meccanico.

La razza umana scomparirà. Altre razze appariranno e si estingueranno a loro volta. Il cielo diventerà gelido e vuoto, attraversato dalla debole luce di stelle morenti. Che a loro volta scompariranno. Tutto scomparirà. E ciò che fanno le persone non ha più senso del moto casuale delle particelle elementari.
H. P. Lovecraft

In questa luce le visioni lisergiche di Rust assumono il ruolo di squarci aperti, forse, sulla vera realtà delle cose, arricchendosi di simboli propri della vicenda nella quale il detective si trova coinvolto.

True Detective

Una delle visioni di Rust, il simbolo della spirale

True Detective Rust

La luce gialla, smorta, uno dei simboli visivi del serial

Le citazioni sono tantissime, la serie presenta collegamenti interni, a ripetere quella struttura a spirale che è il simbolo del culto che i due true detective stanno rivelando, puntata dopo puntata.

Sul diario della ragazza trovata uccisa (sacrificata) si legge:

Along the shore the cloud waves break,
The twin suns sink behind the lake,
The shadows lengthen
In Carcosa
Strange is the night where the black stars rise,
And strange moons circle through the skies,
But stranger still is
Lost Carcosa
The King in Yellow, Act I, Scene II

Tratto dall’opera teatrale fittizia che da il nome alla raccolta di racconti di Robert W. Chambers.

true detective carcosa

La citazione da Il Re in Giallo sul diario della ragazza sacrificata

Siamo alla quarta puntata, metà serie è andata e le cose sono cambiate. Nic Pizzolatto, l’ideatore, e Cary Fukunaga, il regista, si sono presi la libertà di usare le prime tre parti della storia (un primo Atto) per raccontare il lento scavare dei due nel caso e in sé stessi, muovendosi lentamente verso quella che sarà la probabile conclusione, dove attende il mostro alla fine (nostro) del sogno. Ed è a questo punto che per entrambi è tempo di cambiare (o rivelare il vero sé, con la scusante degli eventi esterni che catalizzano, richiedono, tale cambiamento). E in pochi minuti Rust “è costretto” a tornare Crush, silenzioso spacciatore ritenuto morto. E Marty si spoglia, fisicamente e moralmente, di ogni parvenza civile per rivelarsi bifolco nell’apparenza oltre che nella sostanza.

Hastur

Hastur, il Re in Giallo

Ci sarebbe moltissimo da dire, su queste “sole” quattro puntate, dal lavoro eccezionale sui personaggi, dall’alchimia tra i due poliziotti, dalla qualità della fotografia e delle location scelte (vero terzo protagonista della serie) fino a quel già osannato piano sequenza di sei minuti che chiude quella che Pizzolato ha definito la prima parte del secondo atto di True Detective. E ne parleremo ancora, ma in seguito, quando tutto questo sarà finito e, forse, completo.

In un’intervista all’Arkham Digest lo stesso Pizzolato ha descritto molto bene il lavoro svolto sulla serie, insistendo sul fatto che non ci sono elementi sovrannaturali (cosa che trovo estremamente positiva, vista la natura rituale degli omicidi e la presenza delle allucinazioni, non serve davvero altro per raggiungere quel luogo tra luce e ombra dove il sospetto genera la paura, senza inutili forze aliene). Una sua frase raccoglie il pensiero di Rust, che è evidentemente anche il suo, e il senso ultimo della storia: Reality is the dread.

Da qualche parte a sud, tra le paludi, uomini potenti e ricchi si muovono attorno a circoli di pietre, compiendo oscuri sacrifici. Per evocare, forse inconsapevoli, il mostro che attende alla fine del sogno e che, a conti fatti, è l’essere umano, davanti allo specchio che ne rivela la vera natura.

La chiesa del Re in Giallo

La chiesa, il nulla, la civiltà distruttrice sullo sfondo

For although nepenthe has calmed me, I know always that I am an outsider; a stranger in this century and among those who are still men. This I have known ever since I stretched out my fingers to the abomination within that great gilded frame; stretched out my fingers and touched a cold and unyielding surface of polished glass.
H.P.Lovecraft – The Outsider