È vicino a casa mia.
Nella palude.
Sta tutto lì, serve ben poco altro. Quella frase, quel frammento di dialogo, che precede un lungo e bellissimo piano sequenza di sei minuti, nella quarta puntata di True Detective. È stato quello a spingermi a scriverne, dopo esserci arrivato grazie all’entusiasmo degli articoli di Germano e, impossibile negarlo, alla presenza di citazioni tratte da Il Re in Giallo. Pensando all’inizio che si trattasse dell’ennesimo poliziesco non ci avevo fatto troppo caso. Invece bastano pochi minuti, qualche dialogo e attenzione alle location scelte, per capire che ci si trova di fronte a uno spettacolo diverso. Niente lucida tecnologia, niente classica coppia di sbirri, nessun filtro high contrast alla moda.
Il mondo nel quale si muovono Marty e Rust (Woody Harrelson e Matthew McConaughey) è stato candeggiato parecchie volte, senza che questo riuscisse a togliere lo sporco incrostato nella trama, in ogni sua fibra. E ci sono pochi luoghi adatti quanto la Louisiana, lì dove si abita “nella palude”, dove la terra è intrisa di miti oscuri, rivelati puntata dopo puntata con quasi fastidiosa parsimonia.
Altro colpo magistrale il suddividere la narrazione su due piani temporali, in un continuo di rimandi e citazioni che legano l’indagine sul killer, avvenuta diciassette anni prima, e l’interrogatorio al quale i due detective sono sottoposti da loro colleghi. In esame, sembrerebbe, c’è il ritorno in azione del killer e il bisogno di ripercorrere gli eventi della prima indagine. L’analisi che i protagonisti fanno del proprio operato è il modo perfetto per disseminare indizi su quanto è successo, spesso interrompendo la rivelazione a poche parole dal “finale”, e permette di navigare a fondo nel carattere dei personaggi. Come non bastassero i dialoghi, eccellenti in scrittura e ritmo, che vedono contrapporsi le teorie nichiliste di Rust al razionale per non dire rozzo approccio alla vita di Martin.
You, yourself, this whole big drama, it was never anything but a jerry-rig of presumption and dumb will and you could just let go, finally know that you didn’t have to hold on so tight. To realize that all your life, you know, all you love, all you hate, all your memory, all your pain—it was all the same thing. It was all the same dream, a dream you had inside a locked room, a dream about being a person. And like a lot of dreams . . . there’s a monster at the end of it.
Rust Cohle

Rust, come lo vede Martin
Chiunque non sia proprio a digiuno di letture lovecraftiane avrà colto nel pensiero di Rust, col suo continuo alternarsi tra realtà e visioni (dovute a un massiccio uso di droghe nel suo passato da infiltrato) le basi di quella teoria del terrore cosmico, dovuto alla consapevolezza che l’uomo è niente più che un insignificante burattino di carne in un cosmo meccanico.
La razza umana scomparirà. Altre razze appariranno e si estingueranno a loro volta. Il cielo diventerà gelido e vuoto, attraversato dalla debole luce di stelle morenti. Che a loro volta scompariranno. Tutto scomparirà. E ciò che fanno le persone non ha più senso del moto casuale delle particelle elementari.
H. P. Lovecraft
In questa luce le visioni lisergiche di Rust assumono il ruolo di squarci aperti, forse, sulla vera realtà delle cose, arricchendosi di simboli propri della vicenda nella quale il detective si trova coinvolto.

Una delle visioni di Rust, il simbolo della spirale

La luce gialla, smorta, uno dei simboli visivi del serial
Le citazioni sono tantissime, la serie presenta collegamenti interni, a ripetere quella struttura a spirale che è il simbolo del culto che i due true detective stanno rivelando, puntata dopo puntata.
Sul diario della ragazza trovata uccisa (sacrificata) si legge:
Along the shore the cloud waves break,
The twin suns sink behind the lake,
The shadows lengthen
In Carcosa
Strange is the night where the black stars rise,
And strange moons circle through the skies,
But stranger still is
Lost Carcosa
The King in Yellow, Act I, Scene II
Tratto dall’opera teatrale fittizia che da il nome alla raccolta di racconti di Robert W. Chambers.

La citazione da Il Re in Giallo sul diario della ragazza sacrificata
Siamo alla quarta puntata, metà serie è andata e le cose sono cambiate. Nic Pizzolatto, l’ideatore, e Cary Fukunaga, il regista, si sono presi la libertà di usare le prime tre parti della storia (un primo Atto) per raccontare il lento scavare dei due nel caso e in sé stessi, muovendosi lentamente verso quella che sarà la probabile conclusione, dove attende il mostro alla fine (nostro) del sogno. Ed è a questo punto che per entrambi è tempo di cambiare (o rivelare il vero sé, con la scusante degli eventi esterni che catalizzano, richiedono, tale cambiamento). E in pochi minuti Rust “è costretto” a tornare Crush, silenzioso spacciatore ritenuto morto. E Marty si spoglia, fisicamente e moralmente, di ogni parvenza civile per rivelarsi bifolco nell’apparenza oltre che nella sostanza.

Hastur, il Re in Giallo
Ci sarebbe moltissimo da dire, su queste “sole” quattro puntate, dal lavoro eccezionale sui personaggi, dall’alchimia tra i due poliziotti, dalla qualità della fotografia e delle location scelte (vero terzo protagonista della serie) fino a quel già osannato piano sequenza di sei minuti che chiude quella che Pizzolato ha definito la prima parte del secondo atto di True Detective. E ne parleremo ancora, ma in seguito, quando tutto questo sarà finito e, forse, completo.
In un’intervista all’Arkham Digest lo stesso Pizzolato ha descritto molto bene il lavoro svolto sulla serie, insistendo sul fatto che non ci sono elementi sovrannaturali (cosa che trovo estremamente positiva, vista la natura rituale degli omicidi e la presenza delle allucinazioni, non serve davvero altro per raggiungere quel luogo tra luce e ombra dove il sospetto genera la paura, senza inutili forze aliene). Una sua frase raccoglie il pensiero di Rust, che è evidentemente anche il suo, e il senso ultimo della storia: Reality is the dread.
Da qualche parte a sud, tra le paludi, uomini potenti e ricchi si muovono attorno a circoli di pietre, compiendo oscuri sacrifici. Per evocare, forse inconsapevoli, il mostro che attende alla fine del sogno e che, a conti fatti, è l’essere umano, davanti allo specchio che ne rivela la vera natura.

La chiesa, il nulla, la civiltà distruttrice sullo sfondo
For although nepenthe has calmed me, I know always that I am an outsider; a stranger in this century and among those who are still men. This I have known ever since I stretched out my fingers to the abomination within that great gilded frame; stretched out my fingers and touched a cold and unyielding surface of polished glass.
H.P.Lovecraft – The Outsider